Con la mia città natale ho un rapporto viscerale, fatto di contrasti laceranti e abbracci improvvisi. La amo e la odio, mi esalta e mi soffoca, la ammiro e mi spaventa. Quando le sono lontana mi manca con una nostalgia quasi fisica. Quando mi ritrovo a percorrerne le strade, invece, vorrei essere ovunque ma non lì. È una tensione continua, un dialogo interiore che non trova tregua.

Napoli è fatta di opposti che coesistono e si alimentano a vicenda. L’abissale differenza tra i quartieri ricchi e quelli sgarrupati non è solo urbanistica. È un paesaggio umano, una mappa emotiva che ti costringe a oscillare tra meraviglia e disagio. Basta una svolta per ritrovarti davanti a una chiesa barocca che ti sovrasta con la sua potenza scenica, oppure in un vicolo stretto dove i fili dei panni stesi si confondono con quelli della luce, e la vita pulsa in ogni dettaglio.

Qui il passato e il presente non si succedono,  si sovrappongono: la maestosità di ciò che è stato dialoga con l’imponenza di ciò che accade oggi, in un equilibrio instabile eppure sorprendentemente vitale. Ogni edificio porta i segni di secoli di gloria e di ferite, ogni volto racchiude storie che non hanno bisogno di parole.

Napoli è Safarà, la bottega transdimensionale di Hamlin. Sai quando ci entri, ma non puoi sapere come o se ne uscirai. È un’esperienza che ti avvolge e ti trasforma: un luogo che divora e restituisce, che ti illude e ti rivela. Fotografarla è come tentare di catturare un miraggio: appena pensi di averla afferrata, lei si sposta, ti mostra un’altra faccia, ti sfugge di nuovo.

In queste immagini ho provato a fermare qualcosa di quella molteplicità, sapendo che ogni scatto è solo un frammento, una scheggia di verità parziale. Ma forse è proprio questo il senso: accettare che Napoli non si lascia possedere del tutto, che resta sempre un enigma, una ferita luminosa e insondabile.